L’Italia è il Paese dell’incertezza del diritto. E della faziosità. Saranno le memorie dei Guelfi e dei Ghibellini, o quelle più locali, ma universalizzate dalla letteratura, come quella tra Montecchi e Capuleti, sta di fatto che non c’è tema o argomento che riesca a prescindere dalla partigianeria. Anche la Costituzione più bella del mondo si espone a strattoni e interpretazioni: votare per un referendum è un diritto o un dovere? I costituzionalisti si iscrivono a partiti diversi e forniscono diverse opinioni. Autorevoli?

Le tre questioni

La data è ormai prossima, le scelte sono quasi fatte. Ma la polemica si farà rovente in questi giorni. Più o meno come la temperatura diventata estiva e quindi – secondo alcuni – più incline a sconsigliare una sosta in cabina elettorale, preferendo quella della spiaggia. Ma questo lo vedremo. È questione di giorni. Il nodo della sostanza resta tutto e riguarda almeno tre questioni. La prima, non so se per ordine di importanza, riguarda il ruolo della Cgil. Promotrice diretta di quattro dei cinque quesiti, l’organizzazione sindacale guidata da Maurizio Landini vuole cogliere l’occasione del referendum per testare la sua capacità politica, ormai rivolta all’universo mondo, alle questioni più diverse che emergono dall’attualità politica, sociale ed economica, italiana e mondiale. I quattro referendum promossi riguardano norme sul lavoro, ma in queste settimane la Cgil ha spaziato dallo sciopero contro il riarmo europeo e italiano, alla richiesta rivolta all’Ue di bloccare il progetto del Ponte sullo Stretto di Messina.

Il Pd fa tenerezza

Ormai potremmo aspettarci un intervento di Landini e del suo sindacato sulle indagini di Garlasco, così come sul futuro di Gasperini alla Roma. Nulla si sottrae al giudizio di chi nel passato – e ancora oggi in tutto il resto del mondo occidentale – si sarebbe espresso solo nella capacità negoziale dei contratti e nella difesa dei diritti dei lavoratori in azienda. Tant’è, la Cgil-partito sta facendo le prove di futuro, sollecitata dalla crisi abissale in cui si sta avvitando il Pd. Ed eccoci alla seconda questione di questa vigilia referendaria. Molta stampa manifesta tenerezza nei confronti del Partito democratico. Tenerezza e garbo, come se non si dovesse infierire su una vecchia zia, dal passato glorioso, e dal presente confuso: la famiglia (molta stampa italiana si sente parte di questa famiglia della sinistra “de noantri”) prima di tutto. Ma chi avesse mantenuto uno sguardo “esterno”, da vicino di casa, dirimpettaio del pianerottolo, non mancherebbe di stranirsi di fronte alla campagna che il Pd sta facendo per promuovere il “sì” abrogativo. Lo stesso partito che dieci anni fa ha promosso una riforma della legislazione sul lavoro che ha disinnescato la decennale questione dell’articolo 18 e dello Statuto dei lavoratori, figlio nobile ma attempato degli anni Settanta del secolo scorso, oggi si schiera ferocemente sul fronte referendario.

La sostanza dei quesiti referendari

Solo i cretini non cambiano idea. Ma resta lo sgomento che in dieci anni si possa fare una giravolta di 180 gradi, su una questione non marginale, che attiene in sostanza ai nuovi rapporti nel mondo del lavoro, tra lavoratore e imprenditore, tra garanzie e diritti. In dieci anni si può “svoltare” così, senza turbare il proprio elettorato? La dirigenza, sostanzialmente la stessa di allora – tranne il segretario – non si è fatta problema. Vedremo la “base” che cosa ne penserà. La terza questione riguarda proprio la sostanza dei quesiti referendari. Ci scusino i promotori del referendum sulla cittadinanza, ma il nostro occhio si rivolge agli altri quattro, quelli su cui abbiamo visto che Cgil e Pd si sono trovati – a parti invertite – come promotore e cinghia di trasmissione: ai tempi del Pci, la linea la dettava il partito; la politica era rigorosamente affar suo. Al sindacato spettava di trasferire il “verbo” nei luoghi di lavoro. Oggi è accaduto il contrario. La Cgil ha dato la linea, il partito la difende, senza orgoglio per il suo passato, accettando una capriola che porterebbe le relazioni industriali indietro di mezzo secolo: l’orologio della storia si troverebbe spostato all’indietro di almeno 55 anni per l’esattezza. Lo Statuto dei lavoratori che oggi si vorrebbe rianimare, con tanto di articolo 18, è stato firmato nel 1970.

Italia ultima nella produttività

Il nostro Paese è da anni ultimo nelle classifiche della produttività, della crescita economica, della dinamica salariale: la rigidità del mercato del lavoro è stata da sempre indicata come una delle principali cause di queste performance negative. Le norme del “Jobs act”, che oggi si vorrebbero cancellare, in questi dieci hanno contribuito – conti alla mano – a smuovere questa classifica indecorosa. Oggi c’è chi preferisce indurci a restare saldamente ultimi. Anche la penultima posizione potrebbe essere un traguardo eccessivo: meglio rallentare, fermarsi e innestare la retromarcia.