“Il pacifismo ha un grande vantaggio: che il pacifista non deve studiare nessun problema internazionale nei suoi elementi spesso terribilmente complessi. È sufficiente per lui coltivare nella testa e nel cuore una sola idea e un solo sentimento: l’opposizione alla guerra. Egli ha fatto voto di non capire niente, e per mantenere il suo voto non ha bisogno di affaticarsi il cervello”. Così Gaetano Salvemini in una delle sue memorabili “Lezioni di Harvard” (1943).

Rilette oggi, queste dure parole dello storico e antifascista pugliese suonano, o dovrebbero suonare, come un salutare autodafé per i chiacchierologi “neo-erasmiani” (“La pace più ingiusta è migliore della guerra più giusta”, Erasmo da Rotterdam “Querela pacis”, 1517). Eppure, non occorreva l’acume politico di un Kissinger per intuire ciò che era chiaro fin dal primo giorno dell’invasione dell’Ucraina. E cioè che Putin sarebbe stato disposto a trattare solo una sua resa pressoché incondizionata. Perfino Mr. Wolf-Trump, dopo tre mesi di sceneggiate televisive e colloqui telefonici “ad usum populi”, ha dovuto prenderne atto.

E ora, più che cercare una dignitosa via d’uscita dal cul de sac in cui si è infilato, si appresta a una precipitosa ritirata.
In questo quadro, spetta soprattutto all’Europa dimostrare di che pasta è realmente fatta. Non bastano più i canonici pacchetti di sanzioni economiche, gli aiuti militari erogati col contagocce, il cui impiego è ancora largamente vietato nel territorio nemico, le promesse e le iniziative diplomatiche dei leader “volenterosi” della Ue, peraltro definiti “deficienti” dall’ex ufficiale del Kgb.

Confiscare gli asset russi

L’Europa deve cambiare passo e assumersi fino in fondo le responsabilità che gli competono nel conflitto che lambisce i suoi confini. Confiscando, ad esempio, gli asset russi (circa duecento miliardi di dollari), congelati prevalentemente nella società belga di servizi finanziari Euroclear, e destinandoli a un fondo per la ricostruzione dell’Ucraina. Nelle scorse settimane l’idea è stata discussa sia Bruxelles che a Strasburgo. Oltre alla Polonia e ai paesi baltici, anche la Finlandia e l’Austria si sono dichiarate favorevoli.

È vero, si tratta di una scelta invisa alla Bce, che teme possibili reazioni negative dei mercati. E di una scelta su cui pesano le perplessità di Germania e Francia. Ciononostante, è stato proprio l’inquilino dell’Eliseo a non escludere l’installazione di missili nucleari non distanti da Mosca. Non si chiedono a Macron, come a Starmer, Merz, Tusk, atti temerari o sconsiderati. Da loro si può pretendere, però, quel coraggio politico, quella coerenza tra pensiero e azione, indispensabili per frenare le ambizioni imperiali del despota del Cremlino. Se non ora, quando?