«In parte abituati alle incertezze continue, ma soprattutto perché le crisi in Medio Oriente colpiscono un settore specifico, cioè gli idrocarburi, fatto è che la reazione dei mercati alla guerra Israele-Iran è apparsa modesta». Fabrizio Pagani, partner di Vitale, già a capo della Segreteria tecnica del Ministero dell’economia, inizia dalla crisi, appunto in Iran, per tracciare uno scenario della situazione economica che vede gli Stati Uniti di Donald Trump protagonisti.

Professore, i raid contro Teheran hanno inciso solo marginalmente sui mercati. Si stanno abituando alle montagne russe della politica internazionale?
«Una certa assuefazione c’è. Ma anche cinismo. D’altra parte, il mercato più esposto è stato quello petrolifero, dove la volatilità dei prezzi è stata condizionata soprattutto dalla decisione dei Paesi Opec ad aumentare la produzione. Scelta, almeno questa è la sensazione, che avrebbero fatto comunque, peraltro in un contesto di offerta ben più diversificata rispetto al passato. Non dobbiamo più pensare infatti al mercato del greggio come negli anni Settanta, allora sempre esposto alle crisi regionali. La produzione Usa è molto consistente. C’è poi un certo scetticismo su una vera ripresa della domanda dell’economia americana, che ha chiuso il primo trimestre 2025 con una crescita negativa, persino peggiore di quanto previsto. Ma direi che i mercati soprattutto non hanno mai creduto che l’Iran avesse davvero intenzione di chiudere lo Stretto di Hormuz».

Questa settimana si conclude con Trump che dà dello “stupido” a Powell. Siamo ai colpi finali?
«L’indipendenza della Fed è un pilastro istituzionale e un valore fondamentale per i mercati. Non si limita a una questione di principio, ma di tenuta economico-finanziaria. Un intervento definitivo di Trump sarebbe accolto molto male dagli investitori. Una sostituzione di sostituire Powell prima della fine del mandato (nel 2026, Ndr) mi sembra comunque difficile. Si è parlato di un’eventuale presidenza ombra, idea circolata mesi fa con Bessent, poi smentita dallo stesso Trump».

Che però ha detto che “sta pensando a qualcun altro”.
«Ma qualcun altro inevitabilmente ci sarà. Dipende però dalle tempistiche. Se Trump decidesse di nominare un successore ora, nove mesi prima della scadenza anziché dei consueti tre o quattro mesi di transizione, si creerebbe una situazione anomala e imbarazzante. Soprattutto se, come sarebbe ovvio, qualcuno in affiancamento a Powell decidesse di esprimersi nelle scelte della Fed. Se così non fosse, non avrebbe motivo di intervenire tanto presto. Però bisogna ricordare che la Fed non è solo Powell. Ci sono dodici governatori, ognuno con la propria visione e il proprio mandato. Conquistare la Fed non è affatto semplice».

Ma a Powell conviene mantenere una linea intransigente?
«Credo che il presidente della Federal Reserve abbia anche un interesse di legacy. Vuole portare a termine il mandato dando piena attuazione al doppio obiettivo dell’istituzione: stabilità dei prezzi intorno al 2% e piena occupazione. Quindi sì, anche la difesa dell’indipendenza dell’istituzione è nel suo interesse. E mi pare che, intervenendo recentemente al Congresso, lo abbia detto in modo molto chiaro».

Passando all’Europa, Trump ora sembra voglia rivedere la data del 9 luglio per l’introduzione dei dazi. Che carte ci restano in mano?
«C’è un dibattito, nei circoli europei ed europeisti, tra chi sostiene che si debba essere duri fin da subito e minacciare ritorsioni e chi, invece, propone di seguire una linea simile a quella del Regno Unito. Io penso che la cosa migliore sia proseguire il negoziato tecnico, condotto da Šefčovič e Dombrovskis per la parte europea, e cercare di arrivare a un accordo il più vicino possibile al libero scambio. Un accordo meno intrusivo, che ci permetta di evitare tariffe troppo elevate. Se non sarà possibile, bisognerà reagire, con contromisure, colpendo interessi strategici, magari quelli più sensibili per l’Amministrazione Trump. Anche sul famoso “10% across the board” la discussione è aperta. C’è da confermare se sarà davvero un 10% su tutto o se ci saranno esclusioni importanti, per esempio per l’alta tecnologia o il farmaceutico. In generale, è una tariffa molto elevata. Rispetto a quelle attuali del 2%. Quindi per i nostri esportatori — penso in particolare all’Italia — digerire un incremento di ben otto punti percentuali non sarà semplice. Soprattutto con il dollaro debole. Se si muove tra 1,15 e 1,20 sull’euro, vuol dire che i prezzi dei nostri prodotti esportati negli Stati Uniti diventano molto più alti, quindi meno competitivi».

Ma, al netto della gestione politica, gli Stati Uniti ne hanno davvero bisogno?
«Penso si debbano distinguere due piani. Ci sono alcune legittime preoccupazioni del governo americano, legate alla sicurezza nazionale, all’alta tecnologia e ai controlli sulle esportazioni, soprattutto nei confronti della Cina. Su questo è giusto intervenire ed è importante che anche Pechino riequilibri il suo modello economico, sbilanciato sulle esportazioni rispetto al consumo interno. Ma tariffe orizzontali, che colpiscono tutti i partner indistintamente, mi sembrano misure molto punitive. Soprattutto se contro Paesi alleati, con forti integrazioni economiche. Si rischia di far salire i prezzi, introdurre attriti commerciali e rallentare proprio quel commercio internazionale che è il motore dello sviluppo globale».