I negoziati di Istanbul si svelano come un labirinto di defezioni, provocazioni, insulti. Siamo ben lontani dalla diplomazia che dovrebbe traghettare il popolo ucraino verso una pace giusta e duratura. È uno scenario però molto speculare al dedalo di vicoli che caratterizza l’antica Bisanzio, dove questo summit è ospitato. Marta Ottaviani, giornalista e analista tra le più esperte in Italia del mondo turco, ci aiuta a capire cosa stia succedendo laggiù.

Cominciamo con Ankara, però. Alla fine dell’incontro con Zelensky, Erdoğan ha riconosciuto la Crimea come ucraina.
«Erdoğan è sempre molto sensibile alla questione dell’unità territoriale in chiave anti-rivendicazioni dei kurdi. Inoltre, si è eretto garante morale delle rivendicazioni dei tatari di Crimea e probabilmente ritiene che questi stiano meglio sotto l’Ucraina di Zelensky che sotto la Russia di Putin, noto, quest’ultimo, per un senso di identità nazionale (e religiosa) sempre più connotata».

Come sta vivendo Istanbul questo evento? È tornata a essere la seconda Roma.
«Soprattutto per convenienza di Putin, che ha l’interesse a scegliere la Turchia come mediatore perché sa che sostanzialmente è un Paese molto più amico di quanto possa esserlo un qualsiasi membro dell’Unione europea. Perfino rispetto agli Usa e agli emiri del Golfo, con cui Mosca, in entrambi casi, ha buoni rapporti a fasi alterne. Ma l’incontro fa gioco anche a Erdoğan. Rilancia la sua immagine internazionale come mediatore preferenziale, anche se per nobilissimi motivi, in chiave decisamente anti-occidentale. È come se dicesse: “Avete visto? Sono più importante io di voi”».

Ricostruiamo le ultime 36 ore. In tarda serata di giovedì, arriva il forfait di Putin. Tutto come previsto.
«Assolutamente. Era chiaro fin dall’inizio che questo incontro non avrebbe portato a nulla, ed Erdoğan lo sapeva. La delegazione non è solo di basso livello. Putin vi ha messo a capo Medinsky».

Ecco, parliamo un attimo di lui: non è quello che si dice «un mediatore».
«No, direi di no. Medinsky è un falco. È arrivato a negare l’esistenza dell’Ucraina. Un segnale chiaro di Putin che vuole solo prendere tempo».

Ma anche gettare benzina sul fuoco. Nella mattinata di ieri, Mosca dava del clown a Zelensky.
«Disconoscendo così non solo l’Ucraina, ma l’intero negoziato».

Cosa possiamo aspettarci oggi, quindi?
«Poco o nulla. C’è un elemento interessante, però. Erdoğan ha bisogno anche di Zelensky. Deve parlare di pace, ma soprattutto di ricostruzione. Il presidente turco è pragmatico. Ankara ha tutto l’interesse a che la guerra finisca. Il Mar Nero è praticamente interdetto dal 2022. E il Mar Nero è la Turchia».

Il Mar Nero come mare, o il Bosforo in quanto frontiera che garantisce alla Turchia ingenti pedaggi?
«Entrambe le cose. Rotte commerciali e riassetto geopolitico della regione sono voci primarie nell’agenda di Erdoğan».

Ecco il motivo del bilaterale Erdoğan-Zelensky ad Ankara?
«Al netto degli elementi evocativi che può suscitare Istanbul, Ankara è la Capitale. Lì c’è il palazzo presidenziale, lì ci sono i ministeri. Il tête-à-tête è stato un modo per marcare le distanze rispetto a quanto avviene a Istanbul. Se Zelensky fosse andato direttamente sul Bosforo, dove c’è già una sua delegazione, ma senza il suo omologo russo, avrebbe commesso una mossa diplomatica poco avveduta. Ad Ankara invece l’incontro assume un altro spessore. Sì, direi che Erdoğan vuole mettere il cappello sulla ricostruzione».

Partendo da dove?
«L’obiettivo immediato è la ripresa del commercio navale. Poi seguiranno i progetti di infrastrutture in Ucraina. Per Erdoğan, la pace è una priorità economica».

Prima però bisogna che i negoziati riescano.
«È questo il problema. Ospitare delegazioni che palesemente non vogliono risolvere nulla non permette a Erdoğan di fare una bella figura a livello internazionale. Ma la vera questione è un’altra».

Quale?
«Cosa vorranno fare gli Stati Uniti? Se Erdoğan rischia un fiasco, per Trump è anche peggio. Diceva che avrebbe risolto tutto in 24 ore. Invece non ce l’ha fatta da solo, né ci sta riuscendo appoggiando mediazioni ospitate da altri. È chiaro: Putin sta prendendo in giro tutti. In primo luogo, gli Stati Uniti».

Non a caso, Trump ha proprio detto che senza Putin per lui è inutile andare a Istanbul.
«Washington è rappresentata da Witkoff e Rubio. In ogni caso, la piazza non è sguarnita. A Trump però preme parlare con Erdoğan non solo di Ucraina, ma anche di Gaza. Israele e Turchia non si sopportano, è noto. Per questo The Donald ha interesse a occuparsi in prima persona dei rapporti con Erdoğan sul tema Medio Oriente. La defezione di Putin mette in difficoltà gli Usa anche su questo».

Chiudiamo con Zelensky. Lui torna a casa, ma a fianco della delegazione e a Istanbul resta il consigliere per la sicurezza del governo britannico, Jonathan Powell. Londra c’è.
«Powell è utile per ragionare sul “day after”: la messa in sicurezza dell’Ucraina se la guerra dovesse proseguire. Fa gioco all’Europa, perché mostra che c’è una rete di volenterosi. Non credo sia controproducente nei confronti di Trump. Anzi».