Tutti conosciamo Joan Baez. Una leggenda della musica americana, un esempio civile da decenni. Sempre all’erta come una partigiana. «Ogni giorno succede qualcosa di disgustoso. Viviamo in un tempo crudele. Guardate cosa sta succedendo ad Harvard. Io mi sto dedicando a sostenere gli avvocati che lavorano per i ricongiungimenti delle famiglie immigrate. Il secondo mandato di Trump è un incubo sadico. Oggi la parola empatia è un insulto, è una cosa da deboli. Non pensavo che potessimo arrivare a tanto», ha detto qualche giorno fa qui in Italia. Dove è uscito un libriccino di sue poesie molto intime, “Quando vedi mia madre, chiedile di ballare” (La Nave di Teseo, traduzione di Elena Malanga): testi semplici di una poetica minimale, molto personale.

Un piccolo esempio: «Non mi pento / di averti baciato / la primissima sera / quando non c’erano giusto o / sbagliato / solo un mondo a parte / e il battito sconsiderato / del mio cuore agitato». È l’altra faccia della Joan Baez battagliera del Greenwich Village, Woodstock e mille altre battaglie politiche e musicali, la lontana Joan Baez con Bob Dylan che poi cantava “We shall overcome” o la nostra “C’era un ragazzo che come me amava i Beatles e i Rolling Stones”, la folksinger contro il Vietnam, quella voce da usignolo che rese immortali le canzoni del film “Sacco e Vanzetti”.

«Ci sono tante Joan Baez dentro di me, e qualcuna di loro è una scrittrice. Quindi molta poesia arriva da una parte nascosta nel mio animo»: e qui Baez parla a suo modo delle cose della vita. Eccola: «Quando cala la sera grigia come una battaglia / la tempesta si scatena. / La goccia ondeggia con tenacia / nella notte infernale / ed è ancora lì quando all’alba mi alzo». Sono belle le ultime strofe di una poesia dedicata alla vecchia madre: «La mamma sorride maliziosa / e pensa: / “Ah ah, ma brave. / Queste non sono vere more / sono more finte!” / Poi continua a masticare / e in quella stanza dall’odore dolce / ci sentiamo tutte belle come il sole». Bella Joan Baez, ieri, oggi, sempre.