Si disquisisce di suicidio (Anna Foa, Il suicidio di Israele, Laterza, Bari, 2024). Immagino che il messaggio sotteso dovrebbe consistere nel sostenere che, facendo diversamente, lo si potrebbe evitare, ma questo andrebbe chiesto ai terroristi, visto che purtroppo con loro bisogna trattare. Foa scrive che il dolore per l’eccidio del 7 ottobre 2023 e per i morti di Gaza è lo stesso. Ciò posto, quello che asserisce potrebbe non valere per gli altri, alla luce del proximity principle. Nel mio piccolo, ipotizzo che l’universalismo non funzioni, in quanto manca di reciprocità.

Per una parte della sinistra – prosegue Foa – le proteste per la riforma della giustizia propugnata dal governo Netanyahu non tenevano conto del problema fondamentale da cui pur tutto o quasi derivava: quello dell’occupazione. Ma l’attacco è stato sferrato da Gaza, da cui Israele si era ritirato unilateralmente nel 2005, e non dalla Cisgiordania, dove il processo di pace previsto dagli Accordi di Oslo si era fermato per via dei successivi rifiuti dell’ANP (Autorità Nazionale Palestinese). Un motivo ricorrente fa capolino: cosa avrebbe dovuto fare Israele dopo il massacro e la presa degli ostaggi del 7 ottobre 2023. Nel nostro caso, la storica avrebbe proposto di “tirare dalla sua parte i palestinesi della West Bank e di prospettare la creazione dello Stato, mossa che avrebbe potuto dividerli da Hamas”.

Alla fine del suo libro, Foa torna sull’argomento: “Un governo appena decente avrebbe dovuto, di fronte all’eccidio del 7 ottobre, preoccuparsi in primo luogo degli ostaggi. Avrebbe dovuto, nella sua politica verso i palestinesi, distinguere i terroristi di Hamas dai palestinesi dell’ANP, e attuare immediatamente una politica nei confronti di questi ultimi, volta ad isolare Hamas, non a farne crescere la reputazione come il baluardo della resistenza (…), sennonché “l’unico suo obiettivo è sbarazzarsi dei palestinesi e creare la grande Israele, voluta da D-o?”. In queste conclusioni non emerge come Israele avrebbe dovuto preoccuparsi degli ostaggi; quando si subisce un attacco violento e sadico, non esiste uno Stato al mondo che reagisca in modo diverso. In Italia, dopo il rapimento di Moro (le BR non avevano ucciso migliaia di italiani, non avevano violentato delle donne fino a farle crepare e non avevano mutilato le famiglie), la sinistra fu in prima linea contro il cosiddetto partito della trattativa.

La Knesset, scrive Foa, si esprime contro la nascita dello Stato palestinese. La risoluzione diceva così: “Promuovere l’idea di uno Stato palestinese, in questo momento, sarà una ricompensa per il terrorismo e non farà altro che incoraggiare Hamas e i suoi sostenitori a vedere questo come una vittoria, grazie al massacro del 7 ottobre 2023, e un preludio alla presa del potere dell’Islam jihadista in Medio Oriente”. Non esprimeva un’opposizione di principio, ma si riferiva alle tragiche circostanze; non a caso recita “in questo momento”. Quanto al sionismo, la storica scrive che esso “non ha mai fatto parte della costruzione teorica e filosofica del mondo ebraico”; ma a Pasqua ebraica ci si augura “l’anno prossimo a Gerusalemme”, e non si tratta di un progetto turistico.

L’autrice, in un modo un po’ criptico, asserisce che la vittoria degli ebrei nel 1948 contro gli Stati arabi aggressori “assumeva il senso di una svolta verso una forma di insediamento di tipo coloniale, anche se numerose restavano le differenze rispetto alla politica coloniale degli Stati europei tra Otto e Novecento”. Vi sarebbe da dire che né le decisioni della Società delle Nazioni né quelle delle Nazioni Unite creavano una colonia, bensì uno Stato arabo e uno ebraico. Il libro non menziona la creazione della Transgiordania, che faceva parte del mandato britannico e che portò con sé circa l’80% della Palestina mandataria. Questo 80% è andato a confluire nell’attuale Giordania (ex Transgiordania) più la Cisgiordania.

Viene detto che l’Egitto aveva offerto la pace a Israele nel 1972. Questa possibilità è recisamente negata da Mordechai Gazit, Egypt and Israel – Was There a Peace Opportunity Missed in 1971?, Journal of Contemporary History, vol. 32, no. 1, 1997, p. 97 ss. Non si dice che Golda Meir offrì all’Egitto la maggior parte del Sinai in cambio della pace prima della guerra del 1973, benché questa notizia si trovi sul Times of Israel del 9 giugno 2013. Foa scrive che “la nascita dello Stato trasforma in profondità l’identità degli ebrei tanto nella diaspora quanto in Israele. Oggi gli ebrei sono assimilati tout court agli israeliani, ai sionisti e la guerra di Gaza alimenta ovunque l’antisemitismo”. Un’affermazione che necessiterebbe di una prova a sostegno.

L’autrice sostiene che la diaspora europea perde progettualità e che l’ebraismo europeo è privo di ogni autonomia rispetto a Israele. È vero che l’ebraismo italiano è nulla rispetto al passato e che è privo di grandi figure, però le ragioni non vanno ricercate, per dire, in una mancanza di autonomia, bensì nel fatto che le leggi razziali hanno distrutto l’ebraismo italiano. Non concordiamo con la lettura di Anna Foa sul fallimento di Oslo, per il quale rinviamo a Benny Morris: “Sono un pessimista, i palestinesi non vogliono i due Stati, non vogliono un compromesso, vogliono l’intera Palestina. (Moked/Pagine Ebraiche, 26 agosto 2020). Poi cita il libro “Cari fanatici” di Amos Oz (Feltrinelli, 2017) e scrive che “Protagonisti ne erano quei fanatici che credono di essere gli eletti di D-o in terra a ricostruire la grande Israele”. Il rischio è che il lettore pensi che Oz escluda gli islamici dalla sua narrazione; ma invece scrisse: “Il fanatismo non è un’esclusiva di al-Qaeda e Isis, Jabhat al-Nusra, Hamas ed Hezbollah, neonazisti, antisemiti e seguaci della supremazia bianca, di islamofobi e Ku-Klux Klan, dei teppisti fra i coloni e di tutti coloro che versano sangue in nome della propria fede”.

Foa si cimenta sul significato del sionismo. Faccio capo alle definizioni di Michael Walzer, che è il miglior politologo vivente: “Interpreto il termine ‘sionismo’ come la fede nella legittima esistenza di uno Stato ebraico, niente di più. L’antisionismo nega tale legittimità. La mia preoccupazione qui riguarda l’antisionismo di sinistra negli Stati Uniti e in Europa”.

Emanuele Calò

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