I problemi interni
La dura retorica di Erdoğan contro Israele: il leader politico in campagna elettorale permanente
La Turchia ha ritirato il suo ambasciatore da Tel Aviv e ha tagliato tutti i legami commerciali con Israele, mentre il Presidente ha proclamato il suo pieno sostegno ad Hamas

Erdoğan è un leader politico in campagna elettorale permanente, dunque tutto quello che dice nelle sue dichiarazioni contro Israele, minacciando di invaderlo in difesa di Gaza, va interpretato tenendo presente questo dato. Se si vuole cercare una motivazione razionale alla sua retorica aggressiva nei confronti dello stato ebraico è possibile trovarla nell’indagine demoscopica di luglio del prestigioso istituto di ricerca MetroPoll che ha rivelato che il divario esistente tra il Partito repubblicano del popolo (Chp), maggiore forza politica di opposizione, e il Partito della giustizia e dello sviluppo (Akp) al potere, si è notevolmente ampliato rispetto al dato di giugno. Se si votasse adesso, il Chp otterrebbe il 33,8% dei voti contro il 26,1% dell’Akp. Tutti gli altri istituti demoscopici forniscono risultati quasi identici.
L’elettorato di Erdoğan
L’elettorato di Erdoğan non è più ideologicamente diversificato e formato in maggioranza da correnti liberal o moderate. Ora la sua base sociale è diventata ideologicamente più omogenea ed estremista e il presidente sta affrontando attacchi duri e diretti mossi da correnti islamiste interne e da quelle che si sono staccate recentemente dal suo partito e che nelle elezioni municipali del 31 marzo hanno contribuito a determinare la sconfitta in collegi un tempo feudi dell’Ak Parti. Erdoğan nei suoi discorsi anche in materia di politica estera si rivolge prevalentemente ai suoi sostenitori in patria e domenica scorsa ha pronunciato parole di fuoco contro Israele in una riunione a porte chiuse davanti a suoi sostenitori della sua città natale di Rize. Nel suo discorso Erdoğan aveva affermato che “non c’è motivo” per cui la Turchia non possa agire, come aveva fatto in precedenza, a sostegno dei suoi alleati in altri paesi come la Libia e l’Azerbaigian. “Proprio come siamo entrati nel Karabakh, proprio come siamo entrati in Libia, possiamo fare lo stesso con loro”, ha affermato Erdoğan, riferendosi al sostegno militare turco dato all’Azerbaigian contro l’Armenia nel 2020 e a quello del fornito al Governo di accordo nazionale libico nello stesso anno.
La guerra di parole
Il ministro degli Esteri israeliano Israel Katz ha risposto tramite la piattaforma di social media X dicendo: “Erdoğan sta seguendo le orme del defunto dittatore iracheno Saddam Hussein con le sue minacce contro Israele. Lasciategli solo ricordare cosa è successo lì e come è finita”, alludendo alla cattura di Saddam da parte delle forze statunitensi. Il Ministero degli Esteri turco ha continuato la guerra di parole, paragonando il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ad Adolf Hitler e affermando che sarebbe andato incontro ad una sorte simile. E ancora il ministro degli Esteri israeliano ha chiesto ai paesi membri della Nato di espellere la Turchia dall’Alleanza. La retorica del presidente turco nei giorni successivi al 7 ottobre, dopo l’attacco di Hamas nei kibbutz israeliani, aveva assunto un tono relativamente moderato, ma ha dovuto cambiare bruscamente rotta quando le proteste antisraeliane sono cresciute in tutta la Turchia e il suo partito della giustizia e dello sviluppo al governo del paese, ha perso il primato nazionale, per la prima volta da quando è salito al potere.
I problemi interni
La sua politica su Gaza è stata vista come una delle ragioni per cui gli elettori hanno dirottato il loro voto verso un piccolo partito islamista, Yeniden Refah Partisi, il nuovo partito del Benessere, che sostiene la rottura completa dei rapporti con Israele. La Turchia ha ritirato il suo ambasciatore da Tel Aviv e ha tagliato tutti i legami commerciali con Israele, mentre Erdoğan ha proclamato il suo pieno sostegno ad Hamas da lui definita “organizzazione di resistenti in lotta per la liberazione della Palestina” e ha ricevuto i suoi leader in Turchia. La guerra di parole con Israele sembra più un teatrino che il preludio a un conflitto. Gli sfoghi di Erdoğan riguardano più che altro i suoi problemi interni: la costante perdita di consensi mentre lotta per affrontare le criticità più urgenti del paese, dal peggioramento della crisi del costo della vita alla crescente reazione della popolazione turca contro la presenza di 3 milioni e mezzo di rifugiati siriani nel paese.
La dura retorica contro Israele è dunque il tentativo di impedire ai suoi sostenitori più conservatori di disertare le file del suo partito e rafforzare quelle del Yeniden Refah Partisi e di preservare la sua immagine di alfiere e duro difensore della causa palestinese nella “geografia musulmana”. Ma se Erdoğan avesse voluto fare qualcosa di concreto per danneggiare Israele, avrebbe potuto bloccare il flusso di petrolio azero che giunge ai terminali israeliani tramite l’oleodotto che da Baku attraversa l’Anatolia verso il porto turco di Ceyhan sul Mediterraneo. Con queste parole Erdoğan non ha più alcuna chance di essere invitato al consorzio di ricostruzione e di creazione di una governance a Gaza il giorno dopo la fine della guerra. Minacciando un attacco militare a Israele, Ankara mostra alla leadership israeliana il volto nemico.
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