«Il Vaticano può essere un attore geopolitico del mondo in trasformazione». Ad spiegarlo in questa intervista è Maurizio Molinari, editorialista di Repubblica ed autore di «La nuova guerra contro le democrazie» (Rizzoli) sulle guerre in atto. Alla Triennale di Milano è stata appena inaugurata una mostra sulle Mappe del mondo che cambia tratte dai suoi ultimi quattro libri. «Nel prossimo libro ne aggiungerò una che include il Vaticano – assicura – perché ci troviamo in una stagione di eventi inattesi che si succedono a grande velocità e il prossimo può arrivare da San Pietro».

Perché Trump per la prima volta ipotizza che il negoziato sull’Ucraina si possa svolgere in Vaticano?
«Perché Leone XIV nei pochi giorni passati dal suo insediamento ha già posto le premesse per fare del Vaticano un attore geopolitico».

Che cosa intende per attore geopolitico?
«Una nazione dotata di autorità e strumenti per essere protagonista nello scenario di profonda trasformazione che la scena internazionale sta attraversando. L’autorità viene dal fatto che la Chiesa è una delle tre grandi fedi monoteiste e gli strumenti sono quelli di una diplomazia vaticana fra le più apprezzate per la conoscenza delle aree di crisi».

Quali differenze vede rispetto a Papa Francesco?
«Intanto nel linguaggio che Leone XIV ha adoperato per riferirsi alle due guerre in atto, in Ucraina e Medio Oriente. Francesco si era spinto fino a suggerire la resa agli ucraini, usando l’espressione “sventolare la bandiera bianca”, ed a pronunciare, anche se in forma dubitativa, il termine “genocidio” riferito a Israele rispetto alla popolazione palestinese, con il risultato di far apparire la posizione della Santa Sede di parte, squilibrata. Leone XIV invece, pur ribadendo la priorità per i valori della Chiesa, sta facendo molta attenzione ad avere un linguaggio equilibrato».

Può farci degli esempi?
«Nel caso dell’Ucraina la telefonata al presidente Zelensky ha testimoniato, secondo fonti di Kyiv, un’attenzione importante per le ragioni del Paese aggredito. E sul fronte del mondo ebraico, la scelta di “tendere la mano” richiamandosi alla Dichiarazione Nostra Aetate, che 60 anni fa pose fine all’accusa di deicidio, ha mostrato la consapevolezza di ricostruire il dialogo interreligioso andando incontro a tutte quelle voci ebraiche che dopo l’attacco del 7 ottobre 2023 da parte di Hamas avevano affermato di sentirsi “abbandonate” dalla carenza di empatia dimostrata per le vittime israeliane e, soprattutto, per gli ostaggi ancora oggi nelle mani di Hamas. La presenza del presidente israeliano Herzog all’insediamento di Leone XIV è un chiaro segnale in questo senso. Così come la scelta di Riccardo di Segni, rabbino capo della Comunità di Roma, di essere presente alle esequie di Francesco nonostante fossero di sabato – il giorno ebraico del riposo – ha dimostrato la volontà di guardare oltre quelle “incomprensioni” di cui poi Leone XIV ha parlato».

È uno scenario che può portare il Vaticano a prendere l’iniziativa di ospitare il negoziato sull’Ucraina?
«La conseguenza immediata è che questa opzione esiste. È sul tavolo. Attestando una credibilità di Leone XIV che, in questa fase è soprattutto da parte degli Stati Uniti».

Perché conta così tanto?
«Per il semplice motivo che durante il pontificato di Francesco una delle tensioni diplomatiche maggiori è stata con Washington in occasione della sigla dell’accordo con la Cina sulla nomina dei vescovi. Durante il suo primo mandato Trump si oppose con fermezza, inviò il Segretario di Stato Pompeo dal cardinale Parolin per tentare di impedirlo ma il risultato fu l’opposto. Ora proprio la Cina, ed anche il futuro di questo accordo sui vescovi che presto sarà in scadenza, diventa un tema di interesse geopolitico. Investendo il ruolo che il Vaticano può giocare in Asia e più in generale nell’Indo-Pacifico, una regione cruciale per gli interessi strategici di Usa ed Europa».

La Santa Sede “attore geopolitico” che ruolo può svolgere nel Medio Oriente segnato dal conflitto fra Israele e Hamas?
«Questa forse è, potenzialmente, la maggiore novità. Se ascoltiamo come gli Emirati Arabi Uniti ed il Bahrein leggono, interpretano e sostengono gli “Accordi di Abramo” che dal 2020 hanno portato alla normalizzazione dei rapporti con Israele ci accorgiamo che il tema di fondo è “il dialogo fra le fedi in Medio Oriente” ovvero la convinzione che è la coesistenza e tolleranza fra le tre grandi fedi monoteistiche la chiave per garantire pace, sicurezza e prosperità alla regione. È un approccio che l’Arabia Saudita condivide e che il presidente Trump ha voluto sottolineare recandosi in visita al centro della tolleranza degli Emirati e, in particolare, alla sinagoga di Abu Dhabi. È questa dinamica che può portare anche la Santa Sede, in modalità tutte da definire, ad essere protagonista degli “Accordi di Abramo”. In una regione dove sono i conflitti fra Stati a generare un domino di instabilità, le fedi possono innescare un processo inverso».

Sta ipotizzando un ruolo geopolitico per la fede in Medio Oriente…
«Se guardiamo alla scelta di Trump di nominare ambasciatore in Israele Mike Huckabee, esponente di primo piano degli evangelici in America, ci rendiamo conto come questo processo in realtà sia già iniziato. E Leone XIV può portare la Chiesa ad affiancare lo Stato ebraico e l’Arabia Saudita, custode delle due moschee più sacre dell’Islam, su questo percorso che risponde all’identità di una regione dove persone, etnie e tribù di fedi diverse sono abituate a convivere negli stessi spazi geografici a dispetto da odio e violenza nei confronti del proprio vicino».

Ci può fare un esempio concreto di questo tipo di convivenza fra fedi e tribù separate da odio e conflitti…
«Se attraversiamo la Valle della Bekaa, lungo l’autostrada che unisce Beirut al confine siriano, ci accorgiamo che villaggi sunniti, sciiti e cristiani si succedono gli uni dopo gli altri senza soluzione di continuità. Anche se stiamo parlando di fedi che si sono combattute con ferocia nelle guerre civili libanesi. Ed in maniera analoga nella Città Vecchia di Gerusalemme ebrei, arabi, cristiani ed armeni convivono nello stesso spazio, dentro le stesse mura, ma ognuno nel proprio quartiere. Incontrandosi magari quando escono per strada, per andare al mercato. La ricetta della convivenza in Medio Oriente è diversa da quella dell’Europa: non è basata su confini che dividono in maniera netta gli ex nemici. Questo è uno dei pilastri degli Accordi di Abramo che possono aiutare il Medio Oriente a guardare oltre guerre, orrori e violenze dei nostri giorni».

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Ph.D. in Dottrine politiche, ha iniziato a scrivere per il Riformista nel 2003. Scrive di attualità e politica con interviste e inchieste.