il Ponte
Lo scenario
In Sicilia anche un povero cristo ha un vigneto, l’oro verde che rischia di essere svenduto grazie allo tsunami climatico
Il vino ha trainato la crescita dell’agroalimentare siciliano, con eccellenze e biodiversità invidiate ovunque. Ma il deserto e la carenza idrica sono una minaccia: la popolazione interna potrebbe emigrare definitivamente

Colline dolci, distese di filari, Grillo, Zibibbo, Inzolia, Cataratto, che qui chiamano “lucido”. Il trapanese da Castelvetrano ad Alcamo, passando per Salemi, Paceco, Trapani, Salaparuta, Gibellina, Marsala, vive di vino, da sempre, dai Greci e dagli Elimi. Migliaia di anni di otri, anfore, botti, fino all’esplosione del vino dolce, il Marsala, attraverso gli inglesi, i Whitaker, gli Ingham e i Florio, ormai televisivamente celebri, che divennero Casa Reale. Chiunque in provincia di Trapani o nella confinante Menfi, capitale del vino e reame della Settesoli, primo comune di Agrigento sulla costa sud dell’isola, vive del succo degli acini appesi alle viti.
Anche il povero cristo ha un vigneto
Sul vino sono cresciuti in Sicilia brand sui gradini più alti di Drinks International, come Planeta o Tasca. Ma anche il povero cristo da queste parti ha un ettaro di vigneto, in alcuni casi tramandato da generazioni. Il vino ha trainato la crescita dell’agroalimentare siciliano, non più solo granaio, ai tempi dei grani ucraini o canadesi. Il glorioso Istituto Vite e Vino guidato dal visionario Diego Planeta ha condotto i viticoltori siciliani a costruire cantine in ogni dove. Sul vino la Sicilia ha vinto la scommessa del buon investimento dei fondi europei, raggiungendo mercati irraggiungibili con milioni di bottiglie. Ed è stata soprattutto vinta la sfida della qualità, con eccellenze e biodiversità invidiate ovunque.
L’oro messo a repentaglio dallo tsunami climatico
Ora il trapanese è in profonda crisi, uno tsunami climatico l’ha sconquassato. L’anno scorso la peronospera, fomentata da escursioni termico-climatiche mai registrate, ha lasciato a terra il 50% dei raccolti; quest’anno la siccità porta questa percentuale al 65/70%. Un chicco d’uva per gonfiarsi ha bisogno del giusto quantitativo di acqua, ma mai una goccia è scesa dal cielo in questo 2024. Invasi vuoti, acquedotti fatiscenti, reti idriche colabrodo, prezzi dell’acqua per l’agricoltura insostenibili, quando l’acqua c’è. Ma qui non ce n’è. Le cantine sociali raccolgono migliaia di agricoltori; solo tre di quella parte dell’isola hanno più di 10.000 soci conferitori, non sanno più cosa fare, con il crollo del prodotto, seppur di eccellente qualità. Se hai un terzo del prodotto non puoi mica triplicare il prezzo di vendita: il mercato, la catena della distribuzione non te lo consentirebbero.
Un altro anno così e chiudono. Se non lo fa qualcuno già quest’anno, magari finendo in mano a speculatori che in Sicilia non sono sempre raccomandabili. Un noto geografo sociale franco-tunisino, Habib Ayeb, insieme a una ricercatrice siciliana dall’evocativo nome Costanza (come l’imperatrice d’Altavilla), è venuto in Sicilia l’anno scorso a girare un documentario sugli effetti dei cambiamenti climatici. Per spiegarci, dal punto di vista africano, che il deserto e la carenza idrica (che loro conoscono bene, con le loro colture da oasi) stanno arrivando qui.
Vendere a chi?
E l’Italia, i siciliani che fanno? Assumono le sembianze di un animale di altri Continenti. Come lo struzzo, mettendo la testa sotto la sabbia portata dallo scirocco, dalle inadeguatezze del Cop21 di Parigi sul clima, dalle incapacità di risposte politiche e amministrative. Siamo con dighe inutilizzate, senza dissalazione, nonostante la Sicilia sia circondata dal mare, e gli agricoltori saranno costretti ad abbattere gli animali e vendere i vigneti, l’oro verde dell’isola. Vendere a chi? A multinazionali dell’energia che riempiranno di pannelli fotovoltaici le campagne siciliane, facendo emigrare definitivamente la popolazione interna della Sicilia. Questo lo scenario. Cosa serve per vedere? Forse un bicchiere di vino. In vino veritas.
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