Giovanni Raboni, il grande poeta milanese che da solo tradusse la Recherche per intero, a un certo punto definisce Charles Swann, personaggio centrale del romanzo, un “gruppettaro”, in originale Proust aveva scritto “cercleux” volendo significare “un appartenente a un cerchia”, uno snob, insomma.

Erano snob anche i “gruppettari” cioè le migliaia e migliaia di giovani che nel periodo, grossomodo, che va dalla metà degli anni Sessanta alla metà degli Ottanta, hanno fatto politica alla sinistra della sinistra storica? E perché a tanti anni di distanza questa parola ritorna a proposito della sinistra italiana di Elly Schlein? Sì, erano snob nel senso che non vedevano altro che le proprie ragioni, e per questo erano chiusi agli altri (“cercleux”, appunto, in questo senso: settari) sempre considerati nell’errore, e non solo gli avversari ma anche e soprattutto i compagni di altri gruppi, sicché la rivalità politico-ideologica tra militanti di organizzazioni diverse fu irriducibile, ed è per questo che l’estremismo è rimasto sempre un arcipelago di isole senza ponti.

I capi, non di rado di notevole valore intellettuale e spesso carismatici, erano abbastanza snob, ragazzi spesso di origini borghesi che non pensavano che al riscatto del proletariato, la cui tattica per la presa del potere veniva elaborata in lunghissime e ripetute riunioni dentro licei e facoltà universitarie – molto meno nelle fabbriche. Lo snobismo dei rivoluzionari borghesi in teoria avrebbe dovuto stemperarsi nell’incontro con gli operai in carne e ossa ma spesso ciò ebbe risultati controversi se non peggio, come si vede bene ne “La classe operaia va in Paradiso” di Elio Petri dove tra la massa degli operai sindacalizzati e i giovani gruppettari c’è una sordità insuperabile (anche se va detto che frange operaie caddero nella narrazione estremistica). C’era di tutto, tra i gruppettari. Intellettuali da 110 e lode e totali ignoranti, personaggi equivoci che si baloccavano con i bastoni e orgogliose e consapevoli femministe, sottoproletari figli del popolo e rampolli di dinastie decadute, comizianti e letterati. Pochi soldi in tasca (il tormentone “c’hai cento lire?”), un eloquio spesso stereotipato (l’intercalare del “cioè” ogni tre parole), un certo senso di estraniamento ripreso in diretta, come ha notato Miguel Gotor (Generazione Settanta, Einaudi), da Ecce Bombo di Nanni Moretti o Un sacco bello di Carlo Verdone, due film che fotografano in modo grottesco quella miscela di autocoscienza e voglia di riscatto di tutta una generazione, un mix di joie de vivre e di Brigate Garibaldi , risate e cupezza insieme. Di certo i gruppettari pensavano di avere una cosa: di avere ragione.

Di qui il settarismo e la tendenza a evitare ogni contaminazione. Separati perciò dalla realtà. Alla fin fine i gruppettari parlavano a loro stessi più che al popolo. Oggi che tutto è cambiato dobbiamo domandarci se le leadership odierne dei partiti di sinistra non stiano contribuendo a mantenere alta la muraglia che li separa dalle masse popolari, se il linguaggio, le movenze, certi atteggiamenti di Schlein e non solo di Schlein in un certo modo non appaiano, a dispetto delle previsioni, anche loro un po’ snob, se la chiusura nel recinto di gruppi dirigenti più amicali che politici in senso stretto sia solo frutto di inesperienza o di una precisa cultura politica, se la grande fatica della sinistra non dipenda anche da un sui “essere altrove” rispetto ai tanto evocati luoghi del dolore e del conflitto.

Rispuntano meccanismi politicamente claustrofobici, le riunioni nelle quali ci si dà ragione l’un l’altro, l’aggiramento del dubbio, il rimirare le proprie certezze e lustrare il mito della piazza alla ricerca di un Popolo. Il tutto con la garanzia impagabile dello “stare tra di noi”, nel tranquillizzante riconoscersi dalla stessa parte nella convinzione di essere nel giusto, spesso piegando la realtà ai desideri. I gruppettari a un certo punto rifluirono nel privato. Attenzione a che la storia non si ripeta una seconda volta, inevitabilmente come farsa.

Mario Lavia

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