Il conflitto e la diplomazia
Guerra e pace: Israele stringe su Hamas, Hezbollah minaccia ma calcola i rischi. Blinken e Macron dialogano
Nasrallah frena sull’escalation. Blinken in Israele assicura il sostegno Usa ma chiede di proteggere i civili. Macron annuncia una conferenza umanitaria a Parigi

L’atteso discorso di Hassan Nasrallah è arrivato dopo quasi un mese dall’attacco di Hamas del 7 ottobre e la guerra a bassa intensità esplosa tra sud del Libano e nord di Israele. Il capo della milizia sciita ha così interrotto un lungo e curioso silenzio. Lo ha fatto con un discorso infuocato, ma senza dare l’impressione di volere avviare un’inquietante escalation. Le sue parole hanno fatto intendere come Hezbollah segua la linea iraniana, tra la sfida allo Stato di Israele e il sostegno alla causa palestinese e anche quella particolare di Hamas. Ma allo stesso tempo, le frasi di Nasrallah sono apparse attendiste, frutto di un rischio calcolato con cui Hezbollah punta a tenere alta la tensione con le forze armate israeliane, rafforzare il proprio sostegno interno, ma senza superare quella linea rossa che potrebbe innescare un conflitto diretto con lo Stato ebraico.
“Siamo pronti al sacrificio, siamo pronti a dare tutto” ha affermato il leader di Hezbollah nel suo videomessaggio. Ma tra elogi ai “martiri” di Hamas, minacce allo Stato ebraico e avvertimenti agli Stati Uniti, il suo discorso è apparso anche molto preciso nel fornire due elementi significativi. Il primo è stato quello di rimarcare come l’orrore del 7 ottobre sia stata “un’operazione al 100 per cento palestinese” che “i suoi autori hanno nascosto a tutti”.
Il secondo elemento è l’assenza di alcuna dichiarazione che faccia appunto presagire un prossimo conflitto con Israele: scenario desiderato soprattutto da molti esponenti di Hamas per dividere le Israel defense forces. “Le nostre operazioni dicono al nemico che, se attacca, commetterà la più grande follia nella storia della sua esistenza”, ha ripetuto Nasrallah. Affermazioni certamente dure. Ma nell’impianto narrativo di un movimento come quello del Partito di Dio sono frasi che sembrano addirittura prevedibili, e che nulla aggiungono a un conflitto latente già realizzato con lanci di razzi contro il nord di Israele e risposte delle Idf attraverso attacchi aerei o con l’artiglieria contro il sud del Libano.
Sul fronte nord, dunque, per il momento, la situazione sembra rimanere cristallizzata in questo fragile meccanismo di azione e reazione a ridosso della cosiddetta “Blue Line”. Il premier israeliano Benjamin Netanyahu ha risposto alle parole del capo di Hezbollah minacciando il movimento che subirà “perdite inimmaginabili” in caso di mosse azzardate. Ma è chiaro che in questa particolare fase di conflitto, il governo di emergenza di Israele rivolga principalmente le sue attenzioni al fronte più caldo, quello della Striscia di Gaza, dove è in corso la battaglia decisiva e più difficile. Le Idf hanno dichiarato di avere ucciso “numerosi terroristi” dal loro arrivo a Gaza, che ormai hanno completamente circondato, ma piangono anche i loro caduti: altri cinque soldati nelle ultime 24 ore. Il ministro della Difesa Yoav Gallant ha detto che gli attacchi contro l’organizzazione palestinese “continueranno e aumenteranno”. E mentre prosegue l’avanzata di terra, l’obiettivo che diventa sempre più urgente è anche la distruzione dei famigerati tunnel.
Obiettivo raggiungibile con bombardamenti che, se da un lato rendono possibile la distruzione di questa rete, dall’altro lato non escludono che possano essere colpiti infrastrutture civili e abitanti. Ieri, un raid ha distrutto la sede dell’agenzia France Presse a Gaza, mentre un altro raid ha colpito l’Istituto francese. Accuse alle Idf sono arrivate anche dall’agenzia Unrwa delle Nazioni Unite. Al Jazeera, invece, ha riportato la notizia della morte di 15 persone per un bombardamento che ha investito l’ingresso dell’ospedale al-Shifa. Il timore per la crisi umanitaria agita anche le cancellerie mondiali, con quella statunitense e francese in prima linea per garantire l’equilibrio tra il diritto di Israele a combattere i nemici e tutelare la propria sicurezza e la protezione dei civili palestinesi. Il segretario di Stato Usa Anthony Blinken, tornato in Israele per incontrare Netanyahu e impegnato in un nuovo tour mediorientale, ha dichiarato che lo Stato ebraico “non ha solo il diritto ma anche l’obbligo di difendersi e di assicurarsi che il 7 ottobre non si ripeta mai più”. D’altro canto, però, l’inviato di Joe Biden ha anche sottolineato la necessità che “venga fatto di tutto” per proteggere i civili e “fornire assistenza a coloro che ne hanno disperatamente bisogno”, con la Casa Bianca che chiede ancora brevi tregue umanitarie.
Sul punto è intervenuto anche il presidente francese Emmanuel Macron, che ha annunciato una “conferenza umanitaria” che si terrà a Parigi il 9 novembre. “La lotta al terrorismo non giustifica il sacrificio di civili”, ha dichiarato il capo dell’Eliseo. Intanto si lavora anche su stranieri e ostaggi intrappolati nella Striscia. Ieri è continuata l’uscita di cittadini stranieri attraverso Rafah: tra questi anche altri italiani e italo-palestinesi. Sul fronte ostaggi, invece, il Pentagono ha confermato che i droni Usa stanno sorvolando la Striscia di Gaza per aiutare Israele a individuarli. Mentre Netanyahu ha dettato di nuovo la linea: nessun cessate il fuoco senza il ritorno a casa delle persone rapite il 7 ottobre. Sono ancora 241, secondo le indagini delle Idf, le donne e gli uomini in mano ai miliziani di Hamas. E per l’organizzazione islamista il prezzo per il loro rilascio è sempre lo stesso: l’interruzione delle operazioni militari israeliane e il rilascio dei palestinesi detenuti nelle carceri dello Stato ebraico.
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