Sono passati due anni dall’inizio della guerra civile in Sudan e il mondo continua a ignorare questo terribile conflitto. Il 65% della popolazione sopravvive soltanto grazie agli aiuti internazionali e oltre 13 milioni di persone hanno dovuto abbandonare le proprie abitazioni. Gli sfollati sono finiti in campi profughi improvvisati, dove è difficile procurarsi da mangiare, e che spesso diventano campi di battaglia fra i due contendenti.

Il conflitto è iniziato quando il generale Abdel Fattah al-Burhan, presidente golpista, ha cercato di arruolare forzatamente i paramilitari delle Forze di Supporto Rapido nell’esercito nazionale. Guidati dal generale Mohamed Hamdan Dagalo, detto Hemeti, questi miliziani sono tagliagole violenti e sanguinari che hanno permesso ad al Burhan di abbattere il vecchio regime di al Bashir, ma si sono poi rivelati incontrollabili. Lo scontro è apparso subito durissimo e ha trasformato la capitale Khartoum nel principale terreno di battaglia dell’intero Paese. Centinaia di migliaia di abitanti hanno abbandonato la città, dove per mesi e mesi si è combattuto strada per strada.

I governativi, forti dell’appoggio dell’aviazione e con piloti russi a guidare gli aerei, hanno martellato con bombardamenti continui i quartieri di Khartoum sotto controllo delle Forze di Supporto Rapido, mietendo migliaia di vittime fra i civili. Proprio la capitale ha sofferto una delle situazioni peggiori con i paramilitari che nei primi mesi sono riusciti a prenderne il controllo, compresa la tv nazionale e il palazzo presidenziale. Con il passare del tempo, però, i soldati di al Burhan, che ha spostato la capitale provvisoria a Port Sudan, hanno riguadagnato terreno, chiudendo tutte le vie di approvvigionamento per gli assediati e costringendo i miliziani a ritirarsi anche dall’aeroporto, ora saldamente nelle mani dei governativi.

Lo zampino di Putin e l’ascesa dei diavoli a cavallo

Le Forze di Supporto Rapido sono un prodotto africano del Wagner Group che le ha addestrate e armate, mentre gli Emirati Arabi Uniti sono il principale finanziatore di Hemeti e del suo gruppo. La maggioranza di questi ribelli sono originari della regione occidentale del Darfur e appartengono alle tribù arabe di questa area. In passato, si sono macchiati di crimini contro l’umanità nel genocidio delle popolazioni africane del Darfur, dove gli abitanti li chiamavano Janjaweed, diavoli a cavallo. Le continue controffensive dell’esercito regolare, armato dall’Egitto con soldi sauditi, hanno cambiato gli equilibri sul campo, scacciando le RSF dal Kordofan, dalla regione costiera e dalla quasi totalità del distretto di Khartoum. I miliziani fedeli ad Hemeti si sono così asserragliati proprio in Darfur, la loro regione di origine, dove da un anno assediano al Fasher, la capitale del Darfur settentrionale, l’unica città ancora in mano ad una milizia alleata di al Burhan.

L’universo di milizie tribali

Il Sudan, infatti, non vede soltanto due contendenti, ma un universo di milizie tribali, politiche e territoriali che si alleano con i governativi o con i ribelli. Spesso si tratta di tribù che usano la guerra civile per sanare vecchissime ruggini, perse nel tempo, ma vendicate nel sangue. La lunga guerra civile sudanese ha destabilizzato anche i paesi confinanti, a cominciare dal Ciad e dal Sud Sudan, due economie fragili che hanno fatto fatica ad assorbire il peso delle centinaia di migliaia di profughi che hanno inondato le cittadine di frontiera. A Khartoum si gioca anche un’importante partita geopolitica perché questo Stato africano ha determinanti risorse minerarie e vanta una posizione strategica. La sua costa distesa sul Mar Rosso ne fa una preda ambita, soprattutto in una situazione di estrema precarietà di tutta l’area, dopo i continui attacchi degli Houthi yemeniti al naviglio di passaggio verso Suez e il Mediterraneo. I primi a mettere gli occhi sui porti sudanesi erano stati i russi che, già nel 2019, avevano firmato un accordo per stanziare una flotta nella penisola a nord di Port Sudan. L’allora presidente, Omar al Bashir, voleva utilizzare i russi per puntellare il suo traballante regime, ma non aveva fatto i conti con i due generali che oggi si combattono e che, nell’occasione, si erano alleati per prendere il potere. Il nuovo governo golpista non aveva del tutto chiuso i rapporti con Mosca, ma erano soprattutto i paramilitari di Hemeti a tenere i rapporti grazie al sodalizio con il Wagner Group, autentico padrino delle Forze di Supporto Rapido. Il generale al Burhan, per riequilibrare le influenze in campo, si era rivolto all’Egitto e di conseguenza agli Stati Uniti, ferreo alleato del Cairo. In questo domino regionale si erano subito ritagliati un ruolo gli Emirati Arabi Uniti, bramosi di uno sbocco sul Mar Rosso, finanziando i paramilitari e l’Arabia Saudita, che ha versato a pioggia soldi un po’ su tutti, offrendosi anche come mediatore internazionale allo scoppio del conflitto.

Pechino non è certamente rimasta a guardare e ha concluso una serie di accordi commerciali con l’attuale governo sudanese ma, per il momento, non ha chiesto spazio per navi e soldati, accontentandosi della grande base che ha costruito a Gibuti. In questo complesso mosaico si continua a combattere, ma anche a trattare. A Londra la Gran Bretagna, insieme all’Unione Africana, all’Unione Europea, alla Francia e alla Germania, ha ospitato in questi giorni un nuovo round di incontri, coinvolgendo anche Egitto, Kenya ed Emirati Arabi Uniti, ma senza invitare l’attuale governo di Khartoum. Il ministro degli Esteri della Germania ha però affermato che i due contendenti non si riconoscono a vicenda e non accettano di sedersi allo stesso tavolo, chiedendo insistentemente che l’avversario venga arrestato e condannato. Secondo le Nazioni Unite, entrambi i combattenti hanno commesso gravissimi crimini contro la popolazione civile e sarà necessario un tribunale internazionale per capire meglio cosa sia accaduto in Sudan. Il capo delle RSF, generale Hemeti, nelle settimane scorse ha creato un governo parallelo a Geneina, nominando undici ministri e chiedendo il riconoscimento internazionale, ma ovviamente senza successo.

Mentre a Londra proseguono questi sterili colloqui sul campo, la violenza non si ferma e i paramilitari sembrano intenzionati ad asserragliarsi in Darfur. In questa regione il controllo delle Forze di Supporto Rapido è praticamente totale e, se cadrà anche l’ultima roccaforte governativa, Mohamed Hamdan Dagalo sembra intenzionato a dichiarare la secessione delle due province che compongono il Darfur storico. La creazione di questa entità secessionista potrebbe far deflagrare il tessuto dello Stato sudanese, dando la possibilità anche alle tribù del Kordofan e del Nilo di creare uno stato indipendente. Ad oggi al Burhan, che ha ripreso il controllo della capitale da poche settimane, non sembra in grado di rispondere a una mossa del genere di Hemeti, ma la comunità internazionale ha più volte ribadito che vuole mantenere l’integrità territoriale del Sudan, dicendosi pronta a inviare un contingente come interposizione. La guerra sudanese sembra ancora lontana dalla sua fine.

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Matteo Giusti, giornalista professionista, africanista e scrittore, collabora con Limes, Domino, Panorama, Il Manifesto, Il Corriere del Ticino e la Rai. Ha maturato una grande conoscenza del continente africano che ha visitato ed analizzato molte volte, anche grazie a contatti con la popolazione locale. Ha pubblicato nel 2021 il libro L’Omicidio Attanasio, morte di una ambasciatore e nel 2022 La Loro Africa, le nuove potenze contro la vecchia Europa entrambi editi da Castelvecchi