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Lavori ma sei povero lo stesso

Avvocato e Presidente "Consiglio per la Parità di Genere"
Lavori ma sei povero lo stesso

Se una volta i “poveri” venivano definiti coloro che non avevano un lavoro, ora lo sono anche chi lavora e che riceve paghe così disallineate con il costo della vita che non riesce a sostenerne. Il motivo è presto detto: dal 1992 gli stipendi non seguono più l’adeguamento automatico dei prezzi al consumo (c.d. indicizzati) ma aspettano i tempi e i contenuti dei rinnovi contrattuali in mano alle parti sindacali e ai datori di lavoro.

Il risultato (stimato a fine 2023) è che su 977 contratti collettivi del settore privato oltre il 50% viene aggiornato con larghissimo ritardo (superiore ai 4 anni) e, quando aggiornato, non segue neppure matematicamente né l’aumento del costo della vita né un’equa perequazione del ritardo stesso.

Il settore pubblico non fa eccezione e anzi comprende spesso pratiche ulteriormente errate, fatte di riguardi ad personam o ad genus, che finiscono per impoverire ulteriormente il fondo che lo Stato o le Regioni destinano al generale aggiornamento Istat di un’intera categoria professionale.

A questo aggiungiamoci un andamento inflazionistico mai visto prima, la cancellazione degli scatti di anzianità e qualche altro diritto goduto dalle generazioni pregresse e perso dalle successive e la frittata è fatta: oggi lo stipendio medio è di 1800€, con buona pace degli statali fermi a 1600€ e qualche guizzo in più per i privati.

Ecco spiegato perché l’Italia si è da poco guadagnata la triste medaglia dell’ultimo Pese Europeo per salari reali (e anche dove si guadagna meno che nel 1990).

A ben guardare proprio gli anni ’90 sono stati il crocevia importante nel mondo del lavoro: ci si ricorderà che allora iniziò il declino dei diritti in genere, facevano capolino le prime forme di sub contratti di assunzione e precariato sine die (con i contratti di collaborazione e altro vario sottobosco contrattuale) e le paghe iniziavano a scricchiolare sotto l’avanzata del profitto datoriale e la maggiore remissività sindacale.

I Legislatori, i datori di Lavoro e le parti sindacali, negli anni ’60 – ’80 cresciuti pasciuti di diritti, ne peggioravano per le nuove generazioni in un trend che da allora non ha mai smesso di fermarsi impoverendosi sino ai giorni nostri. Non serve soffermarsi troppo sulla conseguente crisi di rappresentatività dei Sindacati e dei vicini partiti di Sinistra, sulla forbice stratosferica creatasi fra classi dirigenziali e operaie e sulle prese di posizione di chi governa che, da ultimo sul salario minimo, certo delle sue ragioni per non riconoscerne, non valuta però ad altre soluzioni strutturali di incisivo e diffuso sostegno al reddito.

Ma è così anche nel resto d’Europa?

Pochi sono i Paesi Europei con un’indicizzazione automatica (Belgio, Lussemburgo) o indicizzazione contrattuale opzionale (Olanda) e sicuramente, nella graduatoria che pone l’Italia all’ultimo posto per salari reali, loro ne sono all’opposto i primi. In altri, come il Regno Unito e la Germania, in caso di ritardi delle parti sindacali e datoriali, gli aumenti sono decisi individualmente dai datori e lavoratori. In altri ancora la centralità degli accordi sindacali viene almeno contemperata dall’adeguamento del salario minimo nazionale.

L’Italia invece non ha salvagenti e le contrattazioni inique vengono pagate esclusivamente dai lavoratori sotto ricatto di tempistiche volutamente tardive che ne stremano via via le ragioni.

Forse è arrivata davvero l’ora di riscrivere pagine di ruoli, rappresentanze, tempi e diritti perché la sola flaccida decadenza di quelli precedenti pare soluzione non più rispondente non solo al mondo del lavoro (e produttivo) odierno , ma neppure alla dignitosa esistenza di milioni di famiglie e riconoscimento delle tante e multi sfaccettate professionalità dei lavoratori italiani.

Che infatti, quando possono, scappano all’Estero.

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