70 anni dalla morte del filosofo
Benedetto Croce, il patriota che tollerò il fascismo: con Mussolini dopo delitto Matteotti e detenzione Gramsci

Cadono a poca distanza tra loro l’anniversario della marcia su Roma (28 ottobre 1922) e quello della morte di Benedetto Croce (20 novembre 1952). Questo “patriota alla maniera antica”, come amava definirsi anche per differenziare il suo ideale etico dal culto magico del nazionalismo più deteriore e naturalistico, non colse il carattere distruttivo del fascismo, che egli appoggiò anche dopo il delitto Matteotti. Quella somministrata dai fascisti era, per lui, “una pioggia di pugni utilmente e opportunamente somministrata”. In una celebre intervista del 1924, Croce confermava il sostegno al governo e si premurava di definire “un così grande beneficio la cura a cui il fascismo ha sottoposto l’Italia”. La sua preoccupazione era semplicemente che una terapia d’urto che appariva così incisiva contro “la bestia democratica” potesse durare lo spazio di un attimo.
Ancora in Politica in nuce il bersaglio preferito del filosofo della religione della libertà erano i democratici, che non gli piacevano per via delle loro edificanti prediche sull’eguaglianza, sulla libertà e sulla fraternità. Non turbavano in alcun modo le violenze dei fascisti, che anzi erano presentati come “uomini di vivo senso storico e politico divenuti appassionati partigiani della forza”. Odiosi erano i rossi, i democratici, non il partito armato delle camicie nere. Anche se quella distribuita dai fascisti era solo una forza “grossolanamente intesa”, il movimento politico di Mussolini aveva comunque il merito, agli occhi comprensivi di Croce, di dare “scappellotti” ai sostenitori delle “forme insulse” della democrazia. Nel vecchio mondo liberale si sentiva da tempo il bisogno di una pulizia ideologica che liberasse il tessuto molle della nazione dalla “mala gramigna” del socialismo.
Per questo Croce (Cultura e vita morale, cit., p.196) raccomandava di insistere nell’opera di distruzione degli idola tribus del conflitto sociale e di “non darsi troppo pensiero della signora Democrazia e del signor Socialismo”. La seduzione del filosofo per le pratiche spicciole di repressione dei moti sovversivi affondava le proprie radici in un timore per l’avanzata delle masse che coinvolse molta intellettualità europea negli anni della rivoluzione conservatrice. Contro “il mito delle masse” che ricercano altre forme di potere, i veri pensatori “si comportano da reazionari”, ammoniva Croce (Scritti e discorsi politici, Bari, II, p. 139). Dinanzi al fenomeno nuovo dei movimenti popolari che nel loro impeto rappresentano un soggetto politico assai temibile, il problema principale diventava la difesa dell’antico ordine statuale traballante. Nelle scelte tragiche del dopoguerra Croce assunse via via “l’atteggiamento del conservatore che vedeva nel fascismo una pratica politica restauratrice di una legalità violata” (N. Bobbio, Politica e cultura, Einaudi, p. 219). Con il suo peculiare liberalismo, che dopo la guerra di Libia del 1911 palesava delle tinte sempre più marcatamente conservatrici, Croce (Etica e politica, p. 234) asseriva che era necessario scagliarsi contro le “vuote” idee d’eguaglianza. E, nell’ottica di una fiera battaglia delle idee che non disdegnava la forza, avevano per lui ragione quanti prendevano “a scappellotti i creduli in quelle formule insulse e coloro che le vanno ripetendo a uso dei gonzi” (ivi). Proprio mentre il filosofo era alla ricerca di risposte forti contro i fenomeni politici degenerativi immessi nello spazio pubblico dalla crescita del socialismo e della democrazia, l’avvento del fascismo “galvanizzò Croce in una nuova attività. Dapprima egli diede al regime di Mussolini la sua autorevole approvazione, giudicandolo una forza capace di rivitalizzare la nazione” (H. Stuart Hughes, Coscienza e società, Einaudi, p. 211).
La nazione, la vita erano diventati motivi centrali nella filosofia crociana. Con l’inno alla Vita, e con delle ricorrenti suggestioni bergsoniane, Croce “pur così strenuo assertore della ragione, si trovò non di rado a confondersi con i distruttori della ragione” (E. Garin, Storia della filosofia italiana, Einaudi, p. 1297). Con le correnti dell’irrazionalismo europeo, che pure contrastava sul piano teorico, Croce “condivise il generale atteggiamento antintellettualistico, la rivalutazione del mondo delle passioni, delle forze vitali e irrazionali” (N. Bobbio, Profilo ideologico del Novecento italiano, Einaudi, p. 75). Non si trattava solo degli sbandamenti occasionali di un pensatore colto di sorpresa dinanzi alle ambiguità che sempre accompagnano i processi politici di rottura. Secondo Bobbio (Politica e cultura, p. 239), alla fonte delle incertezze che accompagnarono il filosofo nella decifrazione delle tendenze autoritarie del primo Novecento c’era il fatto che “la formazione culturale del Croce era avvenuta interamente al di fuori della tradizione liberale”. Ostile al giusnaturalismo e al suo “astratto ideale di una natura umana fuori della storia umana”, perplesso sui diritti naturali (dopo l’originario significato laico- razionale, l’espressione assume “un chiaro e popolare empirismo”), refrattario alla “mentalità settecentesca” del contrattualismo con il suo dover essere astratto e individualistico, Croce prediligeva taluni motivi romantici, ovvero il sacrificio, la tradizione, la disciplina sociale.
Il liberalismo inglese di Stuart Mill egli lo inquadrava con un disprezzo teorico irriducibile per via dei suoi “poveri e fallaci teorizzamenti”, che risultavano alla base di degeneri inclinazioni atomistiche, agnostiche, sensistiche, edonistiche. Estranea al liberalismo inglese era per Croce la consapevolezza del processo storico come un tragitto nient’affatto unilineare (come una rassicurante “via di progresso piana, sicura e priva di accidenti”) e, anzi, aperto a “rischi di ridiscese”, a “crudeli conflitti e devastazioni”, a “vie scabrose e dirupi”. Anche il liberalismo in versione tedesca, sia pure con i “grandiosi sistemi filosofici” sfornati per disarmare edonismo ed empirismo, mostrava, agli occhi di Croce, uno scarso senso della libertà. Il soggetto libero risultava, di fatto, “schiacciato sotto l’idea dello stato, una sorta di astrazione personificata con attributi e atteggiamenti da nume giudaico”. L’idealismo tedesco, con la sua “statolatria”, andava ridimensionato entro la cornice di un liberalismo più attento agli spazi di libertà del singolo.
Era alla Francia della Restaurazione che Croce guardava come ad un interessante momento di riflessione in cui compariva un’efficace “congiunzione di storicismo e libertà”, inficiato però dalla cronica mancanza di “menti filosofiche poderose”. Significativo è l’accenno che egli faceva alla figura di Tocqueville, pensatore politico al quale il filosofo abruzzese si volgeva con notevole interesse perché vi riscontrava “un certo tratto conservatore, sebbene fosse un conservatorismo secundum quid, di origine nobilissima, un attaccamento a talune tradizioni, istituzioni e condizioni di fatto in quanto egli le vedeva necessarie alla libertà” (B. Croce, Scritti e discorsi politici, Laterza, I, p. 115). Per rimarcare una convergenza di vedute con il pensatore francese, Croce precisava: “Per sospetta o poco attraente che suoni sovente questa parola ‘conservazione’, non si vorrà certo protestare contro coloro che si studiano di conservare la robustezza dell’intelletto, il sentimento del bello, il discernimento morale, l’amore della libertà” (ivi, p. 116). Il conservatorismo, nell’accezione di Croce, era da intendersi, al pari di quell’atteggiamento apprezzato da Tocqueville, come “raccoglimento e approntamento di forze per bene operare e sempre andare innanzi nella lotta della vita”. La sostanza più profonda dell’approccio inseguito dal filosofo italiano poggiava nella “concordia discors di liberalismo e democrazia”.
Nell’impegnativo saggio del ‘39 a proposito della teoria filosofica della libertà (in Il carattere della filosofia moderna, Bari, 1940, pp. 104 sgg), Croce sviluppava una riconsiderazione critica della parabola del liberalismo del primo ‘900. Parlava, a tal proposito, di “una strana crisi” che vide le idee di libertà (un “ideale morale di umanità e civiltà”) soccombere al cospetto della violenza e dell’irrazionale che accompagnavano il virus del materialismo. I moti di protesta lasciavano le élite deboli e in declino dinanzi all’impetuosa massa emergente. La “religione della libertà” non disponeva di miti per tradurre la filosofia liberale in un “convincimento e giudizio popolare”. Tale religione senza popolo era travolta dalle onde minacciose della storia. Contro “le cosiddette masse, a cui un demagogico romanticismo attribuisce misteriose e magiche virtù e presta un correlativo culto”, Croce richiamava il ruolo costruttivo delle èlite. La caduta delle civiltà si arginava solo con la capacità di “accrescere la classe dirigente di sempre fresche forze”.
L’incomprensione dell’esigenza di sollevare una energica azione di massa contro il regime totalitario appare evidente. Il liberalismo veniva rilanciato come una “primavera spirituale” che richiedeva i suoi “geni religiosi e apostolici, ai quali, lento o rapido, si è congiunto poi il consenso delle genti”. La battaglia contro il fascismo, ha notato F. Valentini (La controriforma della dialettica, Editori Riuniti, p. 62), Croce, approdato a istanze critiche, la “combatté sul piano dell’eterno, più che sul piano storico. Preferì vedervi una manifestazione della malattia del secolo, l’attivismo irrazionalistico, e quindi una sorta di peccato contro lo spirito”. E però c’era anche chi resisteva al regime totalitario. Depurato da una certa ostilità verso le correnti storicistiche e da alcuni schematismi interpretativi, il drastico giudizio etico-politico di Zeev Sternhell (Contro l’Illuminismo, Baldini Castoldi, p. 506) evidenzia però un dato reale: “La dissidenza non è stata molto dura per Croce, comodamente sistemato nella propria casa, mentre Gramsci è stato liberato solo per non farlo morire in prigione. Non c’è bisogno di dire che la detenzione di Gramsci in durissime condizioni non suscita alcuna reazione da parte di Croce. In tutti gli anni del fascismo, egli continua a pubblicare la sua rivista La Critica e, separando la cultura dalla politica, rende a Mussolini un servizio senza prezzo per il regime. Mentre Gramsci sta pagando con la libertà, e in pratica con la vita, la convinzione che una simile separazione comporti un tradimento della cultura, l’odio di Croce per il comunismo è abbastanza profondo per rendergli il fascismo tollerabile”.
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