Bisogna sfoltire detrazioni e bonus
Altro che rivedere le aliquote, per far ripartire il Paese serve una rivoluzione

Ogni anno, in periodo di legge finanziaria, che poi coincide con il periodo in cui gli Italiani hanno già pagato o stanno pagando le tasse, sentiamo annunci su riforme del fisco, tagli delle tasse, bonus e così via. Anche quest’anno il governo non ha mancato l’appuntamento. Conte, che risulta più credibile di altri premier, non fosse altro perché a forza di prorogare lo stato di emergenza centralizza a livello esecutivo ogni potere decisionale, promette, anche lui, una rimodulazione dell’aliquota IRPEF che produca maggiore progressività nel prelievo. Il ceto medio trema: lo schema, infatti, rischia di appesantire ulteriormente la pressione su chi ha la sfortuna di avere un reddito sopra i 40mila euro.
Se la promessa di Conte verrà mantenuta lo vedremo, ma una riflessione va fatta. Con almeno 500mila persone che hanno già perso il lavoro e con gli ammortizzatori sociali che prima o poi finiranno, le risorse che ci sono vengono spese per aiutare grandi aziende alla canna del gas come Alitalia oppure per bonus e redditi di cittadinanza vari. Non si fa nulla di serio, invece, per produrre una ripartenza dei consumi e degli investimenti, unica strada che possa portare ad un po’ di ripresa. Il sistema dei bonus, delle deduzioni e delle detrazioni tende a favorire chi ha strutture organizzative più grosse, anche perché per beneficiarne tocca far fronte a complessi adempimenti burocratici. Ed è chiaro che se il 90% delle imprese sono di dimensioni micro, anche la loro struttura organizzativa sarà micro e meno in grado di usufruire delle risorse messe a disposizione.
Ma è quel 90% ad averne più bisogno. E allora è giusto quello che dice il presidente di Confindustria Bonomi: non basta rivedere un’aliquota, ci vuole una rivoluzione. Per farla bisognerebbe avere il coraggio, però, di sfoltire molte di queste detrazioni e deduzioni, bonus e incentivi, e usare questi soldi per ridurre seriamente le tasse. Prima ancora, andrebbe fatta un’operazione culturale: incoraggiare le persone a fare, ad avere un reddito più alto, ad investire, anziché spaventarle con una tassazione vessatoria che all’aumentare del reddito diventa sempre più insostenibile. Incrementare i propri guadagni, aumentare il fatturato della propria azienda, far girare di più l’economia, è un comportamento che uno Stato sano dovrebbe incoraggiare, non condannare. Invece continua a prevalere la logica autolesionistica del “in Italia meno fai e meglio stai”.
E i paladini dell’equità fiscale e della progressività sociale che stanno al governo hanno precise responsabilità, perché non stanno facendo molto per un fisco più giusto e più democratico. L’Istat dice che nel 2019 la pressione fiscale è aumentata ancora, salendo dal 41,8% al 42,4%. Altro che scendere. Nel 2020, in seguito alle scelte fatte, si è avuta l’impressione che per il governo fossero più importanti i sussidi che gli investimenti. Molte imprese piccole e medie e molti imprenditori si sono trovati ad assistere increduli ad uno Stato che salvava le grandi aziende con i soldi dei cittadini, e che al contempo garantiva ai più piccoli micro-prestiti che fondamentalmente sono serviti solo a pagare le tasse. Se è questo il modello di equità sociale e fiscale che vorrebbero imporci sinistra e 5 Stelle, io non lo condivido. Posso capire che l’idea di una flat tax uguale per tutti (questo vuol dire che chi guadagna 100 paga 20 di tasse, mentre chi guadagna 1000 paga 200) possa non piacere a tutti.
Ma davvero qualcuno è in grado di dimostrare che una flat tax non renderebbe più uguali il piccolo e il grande contribuente, l’azienda artigiana ed il grande gruppo che sa come pagare legalmente meno tasse? Per anni, e particolarmente da quando è sceso in campo il Presidente Berlusconi, la sinistra prima e i 5Stelle poi hanno soffiato sul fuoco di una cultura anticapitalista. Una cultura che non vede nell’impresa un fondamentale motore di sviluppo sociale, economico e culturale, ma un covo di furbi e di “prenditori” che provano a fregare lo Stato e il prossimo. Si, ci sono anche quelli, ma il compito dello Stato è bloccarli e sanzionarli, non trattare tutto il mondo dell’impresa come un ambiente criminogeno.
Possibile che sia così difficile percepire quanto sia positivo il ruolo delle imprese nella società? Basterebbe provare per un momento a pensare che cosa accadrebbe se si trovassero tutte in ginocchio. Oggi, oltre a dover fare il possibile per permettere alle nostre imprese di correre veloci con le loro gambe, dando loro regole certe e un contesto dove poter essere competitive, dovremmo agire per rivoluzionare un modello di Stato che così com’è non funziona. È inutile che ci raccontiamo balle: lo Stato non fa troppo poco, fa troppo. E il fatto che faccia troppo è il motivo per cui abbiamo pagato, paghiamo e continueremo a pagare montagne di tasse senza percepire di averne un ritorno. È logico che la politica debba fare i conti con il consenso, confrontarsi con le esigenze dei territori, ma farlo senza aver messo un confine chiaro tra cosa deve essere di competenza dello Stato (scuola, sanità, infrastrutture etc.) e cosa no, non consente alla politica di riportare il confronto pubblico, la spesa pubblica e la tassazione nel campo della ragionevolezza e delle soluzioni praticabili.
La speranza che questo accada e che la si smetta con riforme fatte a fini puramente propagandistici è flebile. Ma sono anche convinta che fare politica debba voler dire battersi per le idee e la visione di società in cui si crede. Ed io, fondamentalmente, alla società del giustizialismo sociale preferisco quella in cui la giustizia è lo strumento essenziale per garantire il comune rispetto delle regole a tutela di tutti, non solo di alcuni.
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