Abbiamo riflettuto e discusso se si dovesse tornare su Khan Younis: siamo già abbastanza sotto tiro in quanto “sgherri pagati” da Israele, non abbiamo voglia di attirarci di nuovo addosso gli strali degli odiatori in servizio permanente. Ma non sappiamo rinunciare al dovere della verità. Tanto più quando una notizia è dura, sconvolgente. In casi del genere esplode in noi l’indignazione, quel sentimento profondamente radicato nell’animo umano che ci rende estremamente sensibili a fatti di violenza o ingiustizia quando colpiscono i più fragili: i bambini, gli innocenti, le vittime inermi.

Sono notizie che parlano la lingua universale del dolore puro, dell’ingiustizia assoluta, e provocano una reazione emotiva immediata, viscerale, che ci scuote e ci indigna. Ma proprio perché così intensa, questa reazione non si appassiona alla ricostruzione dei fatti (e tantomeno tollera smentite).

Per cui, se per caso scopriamo che una notizia è falsa, costruita, o strumentalizzata, ci riesce difficile tornare indietro: abbiamo già provato un sentimento, ci siamo già schierati, e riconoscere l’errore ci appare quasi come un tradimento di quell’emozione. Così finiamo per difendere non tanto la verità dei fatti, ma la verità del sentimento che ci ha attraversati.

E a volte — per non ammettere di essere stati ingannati — preferiamo credere che l’eventuale menzogna sia vera. Con questo – sia chiaro – non sto affatto sostenendo che la notizia di Khan Younis non sia vera. Ma solo che vada fino in fondo accertata nelle sue dinamiche, per rispetto delle vittime, per colpire nel caso i responsabili dell’avvenuto. Ma anche per rispettare coloro – tutti noi – che vengono ogni giorno bombardati da informazioni non documentate, esagerate, false. Maledetti, a volte demoniaci meccanismi propagandistici che scattano in particolare quando si combatte una guerra.